Nell’adunanza
del 6 maggio 1804, il governatore Luigi Vannuccini annunziò ai
confratelli che “essendo seguita la canonizzazione del nostro
protettore beato Antonio con decreto pontificio del 1° marzo 1804,
Sua Santità il pontefice Romano Pio VII aveva accordato la S. Messa
propria del predetto nostro protettore beato Antonio ed insieme
l’ufficio agli ecclesiastici, sia secolari che regolari, non solo
nella diocesi volterrana, quanto nella diocesi senese e che perciò
era necessario fare una festa solenne e decorosa e che perciò avere
fatto radunare il presente Capitolo per determinare il mese ed il
giorno di detta solenne festa”.
Per quanto riguarda il decreto
emanato da Pio VII il 1° marzo non si tratta di una vera e propria
canonizzazione come scrive Giacomo Torti nel registro della Compagnia
con lo svolgimento di un processo regolare, ma di una conferma del
culto tradizionale esistente da secoli.
Negli archivi vaticani
non c’è nemmeno il documento di richiesta presentato dai
dirigenti
della Compagnia del beato Antonio, come si evince da
alcune parole del decreto stesso (S.nius Dominus Pius VII Pont. Max.
ad humillimas preces moderatorum Sodalitatis sub titulo B. Antonii
Patritii a Monticiano … indulsit…). Un po’ anomala anche la
prassi della trasmissione del decreto, che, anziché essere inviato
direttamente al vescovo di Volterra, fu indirizzato all’arcivescovo
di Siena, card. A.F. Zondadari, che provvide alla consegna.
Il
decreto originale pontificio, a parte qualche cambiamento di parole,
è uguale alla copia fatta dal vescovo di Volterra ai dirigenti della
Compagnia e conservata nella sua sede.
In ambedue i documenti
manca la precisazione (forse perché era ovvia), che il culto del
Beato era riservato alle diocesi di Volterra e di Siena, come narrato
dal Torti nella sua memoria.
Per rendersi conto di come si sia
arrivati al decreto del 1804 occorre fare una breve
digressione.
Papa
Urbano VIII Barberini, con una serie di decreti dal 13 marzo 1625 al
12 marzo 1642,
stabilì i requisiti per l’istruzione di processi
regolari perché la Santa Sede potesse canonizzare o beatificare
coloro che fossero degni di venerazione. Mise un freno ad una materia
che da secoli non era incanalata in regole certe e che aveva dato
luogo a molti abusi (basta leggere vecchie cronache come i Pasti
Senesi nelle quali, sono ricordate a decine persone ritenute sante,
delle quali si dubita perfino della loro esistenza).
Per
comprendere nel numero dei meritevoli del culto, anche se locale,
molti che da secoli erano ritenuti santi o beati, designò, come
eccezione, una categoria a sé, i cosiddetti “casus excepti”,
per i quali alcuni meritevoli potevano essere beatificati o ottenere
la conferma del culto dalla Santa Sede. Nei “casus excepti”
erano inclusi coloro che erano
già venerati
“aut
per communem Ecclesiae consensum, vel immemorabilem temporis cursum,
aut per Patrum Virorumque Sanctorum scripta, vel longissimi temporis
scientia ac tolerantia Sedis Apostolicae, vel Ordinarii”. Nei
decenni successivi alla morte di Urbano VIII la questione dei casus
excepti fu molto dibattuta, anche per decidere se l’inclusione in
questa categoria senza un formale processo costituisse l’equipollenza
della beatificazione, come opinava Lamberto Lambertini (il futuro
papa Benedetto XIV) nel suo libro “De servorum Dei
beatificatione et Beatorum canonizatione”.